Legnano si configurò, fin dal primo sviluppo industriale, come una ‘città-fabbrica’, sorta quasi interamente ad opera dell’industria locale, sia nella struttura urbanistica che socio-culturale, grazie a una borghesia illuminata e progressista che, in risposta all’industrializzazione, all’incremento demografico e all’assenza di interventi pubblici e sociali (almeno fino agli anni Trenta), realizzò una rete di provvidenze in favore degli operai e della manodopera femminile e minorile, dalla prima infanzia alla tarda età (case, dormitori e convitti, asili, strutture scolastiche e assistenziali, sanitarie e per il tempo libero, ma anche cooperative di consumo, colonie alpine e marittime, casse di malattia, sussidi ecc.), prima in forme sporadiche, poi in maniera più capillare e sistematica, aspirando al “controllo totale” della vita del lavoratore per legarlo all’azienda, con interventi ulteriormente incentivati dal fascismo, che li ingloberà in un disegno di paternalismo statale.
Era questo infatti il cosiddetto ‘paternalismo industriale’: uno strumento di controllo della forza-lavoro per formare lavoratori ordinati, disciplinati, tranquilli e professionalizzati che garantissero alti profitti e uno sviluppo sociale non traumatico, evitando così condizioni di insalubrità e profonda miseria che caratterizzarono simili realtà e minimizzando la conflittualità sociale.
A differenza però di coeve città industriali, dove le fabbriche e le case operaie furono per lo più realizzate da un singolo imprenditore concentrandosi in periferia, a Legnano – caratterizzata dalla presenza della grande industria all’interno del tessuto storico – non vi fu la prevalenza di una singola azienda sulle altre né un raggruppamento in un solo luogo, ma le maggiori imprese locali operarono con iniziative paternalistiche parallele e interventi autonomi e differenziati per epoca, localizzazione (per lo più centrale), tipologia, progettisti e caratteristiche architettoniche, alleandosi e collaborando tra loro per creare strutture di interesse comune come l’Asilo infantile, l’Ospedale Civile, il Sanatorio per i tubercolotici, la Scuola Professionale, la Colonia Elioterapica o infrastrutture come strade, ponti e sponde del fiume, arrivando ad incidere profondamente sulla stessa morfologia urbana.
La principale politica messa in campo fu quella dell’abitazione, seppur in ritardo rispetto ai modelli europei, attraverso le tipologie edilizie suggerite dai Manuali del tempo, in base al mutare delle forme di controllo e della crescente specializzazione dei lavoratori: dai primi dormitori e convitti gestiti da suore privi di servizi essenziali, che favorivano il permanere temporaneo delle fanciulle dei complessi tessili, si arrivò a strutture più articolate come il convitto De Angeli Frua in via P. Micca (poi Dopolavoro Tosi); dai caseggiati pluripiano per riaggregare il nucleo familiare (in via Micca del Cotonificio Dell’Acqua Lissoni Castiglioni; in via Gaeta e Rossini della Manifattura di Legnano e De Angeli Frua; in via Pontida del Cotonificio Cantoni; in via 20 settembre della Wolsit e S.A.M.), si passò ai quartieri giardino circondati da orti e servizi comuni, con caseggiati operai, villini bifamiliari per impiegati e ville per i dirigenti, tutti caratterizzati da un certo decoro, talvolta completati da villini padronali in forme eclettiche.
Il primo villaggio-giardino fu il Quartiere Tosi, realizzato dalla fine dell’Ottocento vicino alla stazione ferroviaria, ispirato ai modelli francesi o italiani di Nuova Schio e Crespi d’Adda, con case operaie e villini circondati da orti e giardini, palestra, campi da tennis, dopolavoro, albergo, cooperativa di consumo e scuola elementare. Da questo primo esempio la tipologia si diffonderà a macchia d’olio negli anni Venti: il Cotonificio Bernocchi tra via Cavour e Roma, vicino alla fabbrica e alla villa padronale, e in via Battisti, con caseggiati operai, campo da calcio e palestra; il Cotonificio F.lli Dell’Acqua tra via S. Caterina, Milano e Bissolati, con asilo nido e dopolavoro; la Stamperia De Angeli Frua in via Venezia, con asilo infantile e attività ricreative; la Cantoni tra via Volta, Moscova, Correnti e Galvani, con scuola, palestra-teatro e dopolavoro; la Tosi tra via Cattaneo e D’Azeglio e di fronte alla fonderia in via XX settembre; la Manifattura attorno a via Lodi, e così via.
A differenza degli edifici produttivi, in gran parte scomparsi, la maggior parte di queste architetture è sopravvissuta alle demolizioni e ha conservato la propria funzione originaria (scuole, centri sportivi, edifici residenziali), mantenendo una certa leggibilità, seppur con ampliamenti o trasformazioni, talvolta incongrui o banalizzanti, che ne hanno compromesso i caratteri architettonici e di unitarietà.
Patrizia Dellavedova